«Quasi quasi, potrei decidere di non farti partire» la sua voce sarcastica, boriosa, mi fece saltare i nervi e il caricabatteria del cellulare mi cadde di mano.
Se avessi reagito d'istinto, com'ero solita fare quando eravamo appena sposati, me l'avrebbe fatta pagare e a Milano non ci sarei andata di sicuro. Era quello che voleva: provocarmi in cerca di una scusa per punirmi.
Respirai a fondo prima di rispondere e, con tutta la calma che riuscii a racimolare, mi voltai verso di lui.
«Come preferisci, Cesare» replicai, senza alcuna inflessione, mentre in realtà avrei voluto ficcargli il caricabatteria in gola.
Appagato dalla mia remissività, si avvicinò a me con quella sua aria tipica da maschio dominante; mi sovrastava di tutta la testa, senza scarpe non raggiungevo neanche la sua spalla e lui si compiaceva nel guardarmi dall'alto in basso.
A un primo sguardo non si poteva che fermarsi ad ammirarlo, fino a quando non lo si fissava negli occhi grigi, scuri e freddi, quegli stessi occhi che, da ragazzina ingenua quale ero, mi avevano fatto perdere la testa mentre ora mi provocavano solo brividi di paura, così come il sorriso che mi aveva incantata si era presto trasformato in una perenne smorfia ironica. A soli sedici anni, ero stata troppo stupida per riuscire a notarlo.
Non sorrideva, non era spiritoso. Era velenoso e acido. E io ero avvelenata e ustionata da anni passati a sopportare le sue angherie.
Mi mise una mano intorno alla vita e, scendendo verso il basso, mi palpò il sedere stringendomi a sé.
Strinsi i denti e trattenni il respiro. Mi morsi l'interno della guancia per evitare di dire qualcosa che avrebbe potuto impedirmi il viaggio e attesi che se ne andasse.
Qui, per te! |
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